giovedì 18 giugno 2009

Il 4 luglio 1776 il Congresso continentale, in cui sedevano i rappresentanti delle tredici colonie inglesi Nordamericane, riunito a Filadelfia, approvò il testo della Dichiarazione d’Indipendenza. Il documento, all’apparenza così semplice, in realtà nasconde un’intricata rete di richiami. La presente lettura si basa sulla traduzione italiana a cura di Tiziano Bonazzi, alla quale sicuramente si rimanda l’attenzione del lettore, per l’ottimo apparato critico che segue una rigorosa ricostruzione filologica e permette anche di ricostruirne le fortune editoriali in Italia, dove la Dichiarazione non ha conosciuto molte traduzioni, sebbene fosse apparsa prontamente il 14 settembre 1776 nella Gazzetta Universale o Sieno Notizie Istoriche, Politiche, di Scienze, Arti, Agricoltura n. 74, e nelle Notizie dal mondo, VIII, n.74 a Firenze.

Il testo era stato redatto da un giovane Thomas Jefferson, successivamente terzo presidente degli Stati Uniti d’America.

Per tutta la vita egli avrebbe ribadito che, nella stesura del documento, non aveva apportato alcunché di nuovo o rivoluzionario, limitandosi a raccogliere i frutti del dibattito politico e filosofico di quegli anni. Parte delle sue argomentazioni anzi in sede di discussione assembleare furono lasciate cadere proprio perché ormai considerate obsolete; infatti tutti i riferimenti alle rivendicazioni dei sudditi di Sua Maestà erano ormai superate, trattandosi di una dichiarazione di Indipendenza politica.

Jefferson aveva anche aggiunto un paragrafo sull’iniquità della schiavitù, istituzionalizzata nelle colonie dal Re, non dagli americani, ma che fu considerato forse troppo esplicito su un punto ancora controverso, e lasciato cadere. Decisione collettiva fu anche l’appello al Supremo giudice del mondo nell’ultimo paragrafo, perché testimoni la rettitudine delle intenzioni dei rappresentanti nel proclamare l’indipendenza, e alla fine del medesimo paragrafo, in cui le vite e le fortune dei convenuti sono solennemente chiamate a testimoniare il loro impegno confidando nella protezione della Divina Provvidenza. Questi accenni alle modifiche del testo di Jefferson sono a sottolineare che il documento prodotto non è lo scritto di un singolo, ma la volontà di un’assemblea rappresentativa della nascente nazione; in un certo senso gli Stati Uniti realizzano l’ambizione del razionalismo moderno politico di uno stato che sia espressione della volontà (della maggioranza) del popolo, e che dalla reciproca fiducia dei contraenti tragga la sua forza.

Quest’interpretazione per molti anni si è scontrata con quella che vuole il repubblicanesimo di stampo machiavelliano come maggiore influenza sulla costituzione politica statunitense; oggigiorno si è più portati ad ammettere che le influenze siano entrambi importanti. In questo blog io ho scelto di sviluppare solo una linea guida non per negarne l’altra ma solo per seguire un particolare filo conduttore – quello dello sviluppo del concetto di diritto di resistenza, senza neppure considerarne ogni singolo momento, cosa che richiederebbe trattazione ben più estesa – perché l’argomento conduce direttamente dentro gli sviluppi anche recenti della storia politica statunitense, ed è a mio giudizio di estremo interesse ed attualità.

Detto ciò, la vicinanza del testo della Dichiarazione a quello lockiano balza subito agli occhi per i riferimenti puntuali; argomentazioni sollevate testualmente di peso dalle pagine del Secondo Trattato (“…ma quando una lunga serie di abusi ed arbitrii perseguendo invariabilmente lo stesso scopo…”), ma soprattutto la costruzione logica dello Stato come espressione di una somma di individui portatori di valori inalienabili, che Locke chiamava vita, libertà e beni, e che qui divengono vita, libertà e perseguimento della felicità, frase che alle nostre orecchie europee ha un sapore quasi televisivo tanto spesso l’abbiamo sentita recitare, ignorando che essa nasce nel cuore della cultura europea che ragiona sulla costruzione dello Stato Moderno. Cos’è infatti questo perseguimento della felicità se non il diritto di raggiungere i propri scopi che nella Dichiarazione sono ben indicati: portare a termine una conquista che è diretta, bene o male, contro quei nativi che vengono ricordati solo come capo d’accusa verso il Re che, sfruttandone la crudeltà in guerra, nella quale essi “non conoscono distinzione d’età di sesso e di condizioni”, li ha scagliati contro i coloni. Naturalmente questa è solo una delle voci che si levano contro un’autorità ormai irriconoscibile come tale; avendo rifiutato ascolto a quello che era il suo popolo, Giorgio III ha fatto sì che “l’esercizio di poteri legislativi, che sono indistruttibili, tornassero al popolo”, e questa è chiaramente la teoria lockiana ma sfruttata in tutt’altra direzione che quella auspicata dal suo autore, il quale interpretava, come già detto in precedenza, le colonie come legittimo possesso europeo, non come una potenziale indipendenza politica. L’opzione plausibile della disobbedienza, nel discorso lockiano, riferiva semmai ai popoli sottomessi dai coloni, i quali però a partire da questo momento dell’identità e dei soprusi subiti da tali popoli si fanno portatori.

Ma il concetto di individualismo libertario innestato dal pensiero di Locke nella cultura americana era destinato ad una longevità superiore a questi eventi storici. Quando nel 1849 Henry David Thoreau pubblica il saggio su La disobbedienza civile il concetto si era radicalizzato al punto da fargli affermare che, se esistono leggi, come la schiavitù, inaccettabili per un cittadino onorevole, egli è tenuto a disobbedire, esercitando un diritto di secessione individuale dalla Stato. Per Locke, il cui ragionamento era interamente fondato sul principio di maggioranza, questo sarebbe stato inconcepibile; ma come visto, nel pensiero americano la necessità della giustificazione ex-post era già venuta a cadere prima della rivoluzione. Forse una minoranza non può sottrarre sufficiente consenso da far cadere lo Stato ma può generare sufficiente disturbo alla sua azione. Da questo concetto, in seguito, si svilupperanno le linee di pensiero che giungeranno sino a Martin Luther King e Malcom X.

Ma quel che è più interessante notare, è che il pensiero nero si appropria di un’altra importante categoria lockiana: quella del lavoro come strumento di legittima estensione di proprietà sulla terra; in fondo il popolo africano, non i bianchi europei, aveva faticosamente lavorato con le sue mani per civilizzare l’America.

Ai due estremi la riflessione filosofica sembra tornare su sé stessa, come stesse ancora cercando una risposta alla faticosa domanda su cosa sia, veramente, la libertà.

Bibliografia essenziale:

Bonazzi, T. (a cura di), La Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America, Venezia, Marsilio, 1999

Jefferson, T., Antologia degli scritti politici di Thomas Jefferson, a cura di Alberto Acquarone, Bologna, 1961

Thoreau, H.D., Civil Disobedeience, (trad.it. Disobbedienza civile, Milano, SE, 1992)

Jeremy Rifkin, The European Dream , (trad.it. Il sogno europeo, come l’Europa ha creato una nuova visione del futuro che sta lentamente eclissando il Sogno americano, Milano, Mondadori, 2004).




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